Vagabondaggio naturalistico

Il proverbio “Non è tutto oro quel che luccica” non ammette il contrario. Girovagando nell’appartata valle di Cianêt, alla ricerca dei curiosi strati di lignite che vi affiorano in alcuni punti, questo pomeriggio ci siamo imbattuti in curiose pozzanghere che presentavano chiazze iridescenti, a prima vista un chiaro indizio di inquinamento da sversamento di olii o carburanti. Ma in mezzo ai boschi chi può essere stato mai così scellerato da compiere un’azione tanto grave e dannosa? Osservando con maggior cura i dintorni, si notavano zone acquitrinose e piccole sorgenti dai depositi aranciati, tipici indizi di acque ferruginose. Stai a vedere che quelle chiazze potrebbero indicare ferrobatteri in azione! Microrganismi insomma. Se venivano rotte con un bastoncino si sfaldavano in miriadi di piastrelle colorate che non si ricomponevano; inoltre non emanavano odori sgradevoli di petrolio. Concludendo, ciò che a prima vista poteva apparire come un grave disastro ambientale si è rivelato quale prodotto metabolico di un gruppo molto particolare di organismi viventi, l’ennesima sfaccettatura della nostra complessa biosfera. La conca boscosa riservava molte altre sorprese, come il tripudio dei campanellini primaverili che ai primi di marzo macchiano candidamente le rive dei piccoli ruscelli, o il fitto canneto palustre, da cui il nome del luogo, che in passato probabilmente occupava per intero il centro della spianata. I depositi torbosi, un canale di bonifica centrale, il bosco fitto di ontani ed altri indizi confermano questa ipotesi. Ormai relegata ai margini della piana, percorsa da un’anonima strada provinciale su fondo naturale, invasa dagli stavoli, la palude o ciò che ne resta rappresenta un’insolita stazione umida incastonata tra rocce drenanti, calcari e morene. L’esplorazione della conca era coinvolgente e avvincente, soprattutto allo svanire di piste e sentieri. Le vacue tracce relitte erano indecifrabili vie di animali selvatici, che come sempre portano ovunque, tranne dove penseresti o vorresti arrivare. La valle, solcata da alcuni rii con relative vallecole, imponeva relativi scollinamenti, evitando ripidi pendii e impenetrabili arbusteti. Con calma, con testa e buon senso, si trova sempre una via d’uscita da certe situazioni. L’istinto guida con atavica sapienza; il suo ascolto è venuto meno nei secoli, soffocato dalla logica del progresso e da ben altri vantaggi evolutivi, ma l’allenamento può far emergere quel tanto di lui che basta a guidarci ancora, come centomila anni fa. Ed è bellissimo affidarsi a questo fiuto innato, che come un benevolo zefiro spinge le nostre vele su rotte nuove ma sicure. È un vagabondare che arricchisce, costruisce, rafforza lo spirito; un incontro amichevole e amorevole con la parte profonda di noi, che ancora sussurra, che sa ancora condurci attraverso luoghi mai visti prima, mai percorsi, ignoti. La destrezza con cui ci sappiamo muovere, scegliere traiettorie logiche, efficienti, non dispendiose e soprattutto sicure, è stupefacente. Il vagabondaggio naturalistico, definito esoticamente “wandering”, si pratica semplicemente con un solo bastone, possibilmente reperito in loco all’inizio, e prevede l’esplorazione di territori sconosciuti, trascurando tracce e piste, facendoci guidare unicamente dalla curiosità ed il sesto senso; è una pratica di outdoor rigenerante, come una sessione di yoga in mezzo al bosco. Questo pomeriggio ci siamo divertiti nel praticare tale “indisciplina”. Alcuni guadi, altri passaggi tra cumuli di rocce muscose, qualche discesa su lettiera mobile, rendevano emozionante quell’andare senza meta, esplorando il centro ed i margini del catino ombroso; quello scoprire un’infinità di piccolo cose altrimenti escluse alla vista, come stranissimi funghi a ciotola dall’interno rosso fiammante; come i depositi sabbiosi solidificati, lacerti delle ultime ingressioni marine di qualche milione di anni, con tanto di fossili di conchiglie: bivalvi dai gusci bianchi, inattesi premi per il safari naturalistico. E via dicendo… Anche se avessimo scoperto la metà delle cose che abbiamo osservato, o al limite nulla di nuovo, sarebbe stata comunque una bella avventura. Sentire terra quasi vergine sotto le suole mette le ali al dover poi riaffrontare i battuti percorsi della quotidianità.

Per piccola che sia la nostra regione, riserva sempre qualche sorpresa, qualche angolino remoto non ancora esplorato. Non serve spingersi ai suoi confini settentrionali, tra alte cime, o ai suoi margini orientali, dove i boschi s’infittiscono e le valli si accavallano. Anche al centro del Friuli, a poca distanza dalla popolosa pianura, ci sono territori poco noti, che meritano una capatina, come ad esempio Cianêt, recondita valle tra l’altopiano di Monte Prât e il Monte Cuâr.