Sterilità apparenti

La landa carsica, a fine inverno, ci accoglie con belle e significative fioriture. In febbraio iniziano a farsi largo tra i ciuffi d’erba secca graziosi zafferani d’Istria, dalle magnifiche screziature violacee su tenere corolle bianche; poi giungono i cuscini della cinquefoglia di Tommasini ed illuminano di giallo gli antichi pascoli pietrosi, non temendo le gelide sferzate di Borea; intanto spuntano qua e la, a rallegrare la via, piccoli muscari azzurri, chiamati anche soldatini, o pentolini. Visti da vicino sono un incantevole progetto architettonico e nascondono, a chi volge loro un semplice sguardo distaccato, le minute aperture dei fiorellini sferici, ornate da un bordo giallino. Giunge infine l’attesa Pulsatilla montana, dai boccioli vellutati, d’un viola scuro che non ha pari tra i colori dei fiori, e dalla corona di stami gialli che “accende” l’interno della grande corolla. Seguiranno poi, ai primi d’aprile, fioriture sempre più abbondanti, spettacolari o speciali, a testimoniare, se mai ce ne fosse bisogno, di cosa è in grado di fare la natura con un pugnetto di terra gettato in mezzo alle rocce. Altrettanto sorprendente è notare come quel poco di suolo che si fa largo tra le pietre, se debitamente concimato, doni frutti e ortaggi, ma soprattutto vini di grande qualità: Terrano, Malvasia istriana, Vitovska, e tanti altri fedeli amici di osterie. Da queste parti si chiamano osmize, ma il senso non cambia; spazi genuini dove un tempo ci si ritrovava dopo aver sudato a tirar su muretti, a dissodare, coltivare, allevare, mungere e vendemmiare. Una camminata nel Carso triestino solitamente include una variegata serie di incontri con storia e natura, colori, odori e sapori nel succedersi delle stagioni, a iosa… E tutto ciò riguarda solo la superficie, il lato al sole del Carso, perché poi c’è anche il lato B, quello sotterraneo, altrettanto ricco e variegato. È difficile fare anche una semplice passeggiata senza imbattersi in qualche caverna, lambire un abisso e leggere sulla cartina escursionistica il nome di alcune grotte nei dintorni. Il labirinto ipogeo è ben più complicato dei sentieri di superficie, già di per sé intricati. Là sotto c’è una dimensione in più: la profondità, che manca in superficie. E allora segreti e curiosità del Carso si moltiplicano a dismisura. Le connessioni con il mondo nascosto sono solitamente date da tipiche conche imbutiformi: le doline. Condizionatori d’aria naturali che ospitano nel loro fondo, grazie ad un microclima unico, ambienti e piante di altri orizzonti vegetali, arricchendo ulteriormente il mosaico naturale di queste terre aspre e sterili solo all’apparenza. Anche una buia grotta potrebbe apparirci un’ambiente inospitale, terile, abiotico. Avvicinandoci alle volte gocciolanti, alle pareti concrezionate, sbirciando tra i millenari sedimenti del pavimento di questi spazi silenziosi e termoregolati, scopriremmo che un complesso ecosistema di organismi tra di loro in relazione, cooperazione, competizione, successione, porta a compimento il recondito progetto vivente che pervade ogni angolo del pianeta. Bisogna solo saper osservare, in questo caso con una pila frontale ovviamente.

Il Carso delle grize, degli impervi karren, potrebbe apparire una sterile distesa di calcari grigi, incuriosire soltanto per le bizzarre forme di dissoluzione dovute al fenomeno carsico. Invece tra le tasche di quei solchi di pietra si accumula quel poco di terriccio rossastro, chiamato ferretto: substrato fertile per chi sa accontentarsi di poco per sopravvivere. E la vegetazione spontanea in quest’arte è maestra.