KRAGUOINCA – 19 DICEMBRE 2020

Gallerie prealpine

Ogni paesaggio naturale è percorso da infinite vie, infinite relazioni. Ogni essere vivente percepisce in modo differente lo stesso luogo. Concentrandoci solo sul mondo animale, ogni specie, stanziale, erratica o migratoria che sia, vede e vive uno spazio secondo i suoi parametri biologici: procacciamento delle risorse, difesa, disponibilità di spazio, gestione del proprio ciclo vitale riproduttivo, ecc. Camminando tra le estese praterie di molinia della dorsale, testimonianza di prati abbandonati e per fortuna non ancora cancellati dal bosco che ne cinge il perimetro, osservo i “farcadic” i mucchi di terra che le talpe “farcs” disseminano in superficie, ai quali corrispondono le loro gallerie, i rifugi. Da queste parti durante la Grande Guerra anche l’uomo si comportava in modo simile. Una vita misteriosa e affascinante, quella delle nostre cugine minatrici (dopotutto sono mammiferi come noi). Una vita undergroung che presenta questi segni in superficie, sempre più rari, testimoniando un lento declino della specie, soprattutto in pianura, dove le strade, le recinzioni, il cemento, gli arativi, il cambiamento climatico e chi più ne ha più ne metta, hanno nel giro di un ventennio decimato la specie. Quassù, nelle selvatiche Prealpi Giulie meridionali, dove per fortuna qualcuno falcia ancora la molinia, non certo per darla in pasto alle vacche, ma semplicemente per “tener pulito”, le talpe trovano ancora il loro habitat. Non è certo lo stesso vivere agiato della pianura. Gli affioramenti delle marne costringono le abili scavatrici a percorrere arzigogolati tragitti per raggiungere questo o quel posto, per ricercare lombrichi, larve e lumache, ed anche per fare galanti incontri e metter su famiglia. Una vita all’apparenza non facile, visto che può capitare di scavare una galleria e poi trovarsi di fronte un affioramento roccioso insuperabile. Comunque, finché il bosco verrà tenuto a bada e ci sarà cibo e terreno sotto i prati, queste talpe, nonostante le difficoltà, continueranno a campare serenamente. Il prato si allunga per qualche chilometro verso la cima. Sul margine orientale c’è una foltissima fascia di ginepri, un mucchio scomposto di cespugli verde scuro che in inverno contrastano con l’aurea molinia. Inizialmente si erano gettati a capofitto nei prati abbandonati, giocando d’anticipo con gli alberi. In seguito non hanno potuto completare l’opera colonizzatrice perché i contributi regionali per lo sfalcio hanno, per ora, salvato prati, panorami e talpe. Così, in questa serie ecologica bloccata, il ginepraio resta in attesa di cambiamenti, in una sorta di terra di nessuno, pronto a sbranarsi di prato, ma assediato a sua volta dal grintoso bosco retrostante. In mezzo ai ginepri corrono altre vie, discoste e decisamente poco frequentate, anzi per nulla, dagli escursionisti che salgono alla cima, vista la scarsa attitudine ad affrontare situazioni imbrogliate e preferendo di gran lunga il comodo e luminoso prato. Labirinti che solo la volpe e il capriolo conoscono beno; gallerie sotto volte spinose di rami appressati e indistricabili. Piste segrete che conducono ai loro rifugi, a cove d’erba asciutta, a giacigli che il cane da caccia non potrà scoprire. Mi sono inoltrato per qualche metro nel ginepraio, tra coccole blu e spine che d’estate, in maniche corte, non avrei di certo affrontato. Sotto i ginepri ho scorto le piste dei selvatici. Un misterioso dedalo che, sprovvisto di filo d’Arianna, ho solo lambito, intaccato in superficie. Appartengo al gruppo animale che qui ha scavato trincee e tirato le bombe. Meglio tornare indietro…

Nell’alba sorniona e dicembrina il lieve declivio della Kraguojnca lentamente prende forma, stendendo d’innanzi un paesaggio d’erbe brulle macchiato dalle ombre dei ginepri e da graffiti di betulle che gettano al cielo grigio più che mai slanciati fusti bianchi.