QUALSO – 21 FEBBRAIO 2021

Da dove veniamo?

Le foglie secche degli aceri montani tappezzano d’uno strato chiaro e compatto il sottobosco. Vi sbucano mazzetti di campanellini dalle bianche corolle vacillanti su esili fusticini. La primavera è arrivata. Passi nuovi si sovrappongono ad una lunga sequela di impronte che in questi colli procede ininterrottamente da oltre quattromila anni. Il sito di un villaggio palafitticolo dell’età del Bronzo si trova alla base del versante Sud, dietro le vecchie fornaci di laterizi abbandonate. Siamo diretti là. Durante gli scavi per l’estrazione di argilla, che si accumula alla base di queste colline prealpine, emersero a metà del secolo scorso manufatti che non lasciavano dubbi sulla loro origine: pali a punta, scale a pioli, remi, assi, fiocine e persino un peso di bilancia. Si trattava di un insediamento su palafitte analogo ad altri, più noti, rinvenuti nel Nord-Italia, ai piedi dell’arco alpino. I nostri passi pomeridiani in questi boschi di carpini bianchi e robinie percorrono i luoghi di vita dei nostri antenati. Il fruscio del lento incedere tra le foglie secche, un ritmato scalpiccio lungo il crinale, alternato da brevi soste, sono rumori che ci conducono a loro. Stessi suoni, stessi luoghi, diverse calzature, diversi intenti. Forse il camminatore del tremila avanti Cristo, un pomeriggio di fine inverno aveva in mano arco e frecce e ora impugna una fotocamera digitale, ma i suoni del bosco non sono mutati. Il bosco era diverso, certo: la robinia non c’era, sarebbe giunta molti millenni dopo dal Nord America; forse abbondavano i faggi, o fitti querceti. Ma i rumori dell’uomo che cammina non devono essere stati molto diversi da quelli odierni. In questo punto erano coperti dallo scrosciare delle acque del torrente, allora come oggi. Mi sembra di ascoltarli, poco più avanti, oltre il fitto dei cespugli di biancospino. (Continua…)

Procediamo con calma lungo una pista a tratti fangosa che circonda la base settentrionale del colle. Da questo lato il pendio scende dolcemente sino ad incontrare le azzurre acque del torrente, che rumoreggiano poco più in basso, oltre la volta dei noccioli. Il versante boscoso sale sino alla gobba sommitale, cinquanta di metri più in alto.

Il corso d’acqua aggira il colle, creando una difesa naturale, e superatolo allagava la piana, oggi bonificata. Le condizioni ambientali erano ideali all’insediamento. Ai nostri “vecchi” non era sfuggita questa concomitanza di elementi favorevoli alla creazione di un villaggio, non sulla cima del colle, ma nella zona paludosa, su sicure palafitte, come si conveniva in quel periodo. Oltrepassiamo il crinale e scendiamo verso Sud. I sentieri sono più marcati, incisi profondamente nell’arenaria rossastra che ne costituisce lo scheletro. Ce ne sono molti, purtroppo alcuni sono solcati dalle moto da cross. Probabilmente sono i sentieri che portavano al villaggio preistorico. E sul cocuzzolo sommitale, dove ora allignano castagni e frassini, ci sarà senza dubbio stato uno slargo, una vedetta. Rimontiamo nuovamente il dolce declivio per raggiungerlo, per tentare di immaginare la veduta d’allora, oggi in parte preclusa dall’abbondante vegetazione cespugliosa. Con la complicità dell’inverno, che apre le viste tra le caducifoglie, apprezziamo il panorama delle colline, con le Prealpi sullo sfondo, il letto del torrente che ora finalmente possiamo vedere scorrere sul lato destro della valle, non molto ampia né profonda. Non sarà cambiata di molto questa veduta, anche perché non scorgiamo elementi di disturbo antropici: antenne, strade, linee elettriche, case. Tutto rimane nascosto dai boschi golenali, dai colli frondosi, e se d’inverno è così, d’estate ci apparirà ancor più selvaggio e primitivo. Rumori e vedute, in questo appartato pomeriggio di fine inverno, ci conducono lontano nel tempo, e lo specchio d’acqua che raggiungiamo alla base del colle, laddove era il villaggio, riflette nel suo spazio immoto le nostre figure colorate, mettendoci di fronte, all’opposto, ombre di tronchi sommersi e parvenze di sguardi.