PAULARO – 20 SETTEMBRE 2020

Chi sbaglia impara?

Laggiù nella gola le acque brontolano. Il Chiarsò è al lavoro. La forra de Las Callas, che frequentiamo da quando non era ancora attrezzata e l’erba vi cresceva ad alti ed insidiosi cespi sul bordo del burrone, lascia sempre a bocca aperta. Pareti strapiombanti che si avvicinano sempre più. Rocce lisciate in forme sinuose dall’artista liquido come fossero plastilina. Ma è calcare compatto, che solo le frese diamantate possono affrontare a fatica. Il Chiarsò ha il tempo dalla sua parte, e non si stanca mai. Scendendo dalla vecchia mulattiera che dal pittoresco Cason del Nelut porta al mitico Ponte Fuset ci siamo dovuti districare tra i tronchi abbattuti da Vaia. Le belle “dane”, gli abeti bianchi un tempo accuditi dai “menaus” di Paularo, tenaci boscaioli che per generazioni hanno lavorato questi boschi, tra più belli della Carnia, ora sono a terra, martiri di un cambiamento climatico indotto da chi sbaglia e non impara. Il bosco inizia a mostrare ferite, sempre più aperte, da piogge sempre più intense. Superate un paio di frane, eccoci infine sul greto del Chiarsò, davanti alla forra. Grovigli di tronchi portati da Vaia hanno creato un mucchio inestricabile. Ricorda gli intrichi che le antiche fluitazioni della Stua di Ramac rischiavano di formare nella forra. Allora, per evitare l’intasamento, abili e coraggiosi menaus, zoccoli chiodati ai piedi e imbraghi improvvisati, con alte pertiche smuovevano i tronchi, destreggiandosi nell’angusta forra come funamboli circensi. Ora questa matassa di legno ingovernata, preannuncia future sciagure. Una nuova piena la porterà a valle, dove ci sono ponti da abbattere, strade da mangiare. E saremo da capo. L’uomo sbaglia e non impara. Percorriamo il sentiero incavato nella roccia: un percorso creato per i sondaggi geologici. Qui doveva nascere l’ennesima diga. Progetto scartato, che ci ha lasciato in eredità l’ardito percorso e la possibilità di ammirare uno spettacolo che altrimenti solo i menaus avrebbero potuto raccontare e tramandare nei ricordi. Mentre lo percorro, ammirando l’acqua scrosciante sul fondo e le strapiombanti pareti, che sembrano chiudersi sopra l’incavo del sentiero, osservo i ragni al centro delle ragnatele, sul bordo del precipizio. Centinaia di Araneus diadematus, o ragni crociati, che hanno deciso di metter su casa, in fondo alla gola. Forse gli insetti legati al torrente: perle, effimere, tricotteri, quando sfarfallano risalgono la forra fino ad incappare nelle loro tele. Mi colpisce il fatto che non vi sia nemmeno una tela nel mezzo del sentiero. Probabilmente quelle venivano costantemente rotte dai passanti che, sebbene non numerosi, sono abbastanza frequenti d’estate. Così questi piccoli e innocui ragnetti, bestioline laboriose, hanno imparato a farle, o rifarle, di lato, dove l’animale che non impara dai propri errori, quando passa a piedi, non le rompe. Allora mi sono chiesto: chi è più evoluto? Il ragno che impara dai suoi errori e rifà la tela da un’altra parte, o l’uomo, che persevera nello sbagliare, e nulla fa per cambiare?

Calandoci nella gola profonda del Chiarsò non abbiamo provato un senso di claustrofobia, ma all’opposto di affettuosa accoglienza. Il torrente da milioni di anni sta affettando gli strati rocciosi delle Alpi Carniche e oggi ci ha ospitato nel suo cantiere in attività.